Era la terza sveglia che suonava a vuoto. Solitamente Tommaso, Tom come lo chiamavano amici e colleghi, cominciava a dare i primi segni di risveglio dopo la quarta. Viveva solo in casa ormai da quattro anni e non aveva la benché minima volontà di dividere la sua libertà con qualcuno. Aveva avuto qualche storiella passeggera, sia inteso, ma nessuno che gli abbia fatto venir voglia di una relazione duratura. La sua non era una vita facile, soprattutto quando dovette trovare il coraggio di confessare ai suoi genitori che era omosessuale. Non si pentì mai di averlo fatto, benché questo portò ad allontanarsi da essi, sentì che era la cosa giusta da fare. Ancora ricordava come fossa stato ieri la sensazione di libertà che provò subito dopo aver parlato con i suoi. Seduti sul divano di finta pelle beige il padre e la madre stettero per qualche secondo in silenzio, fissando il figlio e cercando di capire se stesse scherzando o meno. Non scherzava. Ma almeno così sapevano la verità. Era giusto così. La volontà di accettarla, poi, non stava a lui. Quattro anni senza ricevere più nemmeno una chiamata da sua madre o una visita da suo padre. Nemmeno un appestato meriterebbe un simile trattamento. La quarta sveglia, eccola. Tommaso la spense toccando lo schermo dello smartphone con un dito. Gli occhi a fissare il soffitto, il rumore di un grosso camion che passava non troppo lontano da lui, il miagolio di Ted, il suo gatto siamese che gli faceva compagnia da più di un anno. Era primavera, la temperatura non sarebbe salita più di tanto quel giorno ma solo l’idea di doversi alzare mise a Tommaso un senso di nausea. Ted salì sul letto e gli si accoccolò sotto il braccio sinistro. Un lieve fascio di luce mattutino filtrava dalla finestra e si stampava sulle coperte leggere, creando un rettangolo dai lineamenti irregolari e imprevedibili. Ricordava perfettamente quel pomeriggio di quattro anni fa, suo padre era uscito per andare a giocare a golf con i suoi soliti tre amici in pensione. Sarebbe ritornato prima di cena. Sua madre ai fornelli. Ogni tanto canticchiava, mentre preparava da mangiare, ma perlopiù era assolta nei suoi pensieri. Così decise di rimandare il discorso a più tardi, quando ci sarebbero stati entrambi. La sera, a cena, fu piuttosto veloce e taciturno. Mangiò in modo fugace e con occhi bassi, come chi si vergogna di qualcosa. I suoi se ne accorsero e gli chiesero cosa avesse. Nulla di importante, rispose lui. Poi la dichiarazione, dopo cena. I suoi sedevano entrambi sul divano e Tommaso in piedi, a pochi passi da loro. Come quando da bambino doveva recitare una poesia natalizia imparata a scuola. Silenzio, subito dopo. Violentemente interrotto da uno strillo da parte di sua madre. Giorgio, il padre, si alzo con adagio dal divano senza pronunciare verbo e si allontanò dalle scene. Bianco in volto sembrava fissare un punto imprecisato del pavimento mentre camminava e si dirigeva verso la camera da letto. Sua madre aveva iniziato a piangere.
Quinta sveglia, doveva alzarsi per andare al lavoro ma proprio non ce la faceva.
Aveva provato più volte, da quando si era trasferito, a chiamare casa dei suoi genitori. Ma non era mai andato oltre lo scorrere della rubrica sullo smartphone… Salvo poi chiuderla e rimetterselo in tasca. La sua non era paura di non essere accettato, era una certezza. In qualche modo era come se li avesse traditi. Come se avesse rigato sempre dritto, in quegli anni, per coprire un qualche piano diabolico che escogitava in segreto. E al momento giusto sferrare l’attacco finale. Suo padre era un tipo vecchio stampo, nato e cresciuto dentro una famiglia di due sorelle e un fratello tutti più piccoli di lui. Era dovuto crescere in fretta e occuparsi di tutta la famiglia quando sua madre era fuori per lavoro. Sei tu l’ometto di casa, ripeteva sempre sua madre. L’assenza de padre, morto in guerra nel 1939, si faceva sentire eccome. Per lui, come per la madre di Tommaso, era impensabile che il loro unico figlio avesse questa “malattia”. Una cosa che gli sfuggiva di mano e sulla quale non avevano potere. Forse era quello, più di ogni altra cosa, a frustrarli. Una malattia, così l’aveva definita più volte suo padre. Ogni volta era una pugnalata al cuore che si cicatrizzava con lentezza infernale. Le notti passate a piangere erano diventate quasi una routine. A volte sommessamente, a volte urlando e singhiozzando affinché potesse uscire tutto il suo odio verso il mondo. Se ti avessi detto che avevo ucciso qualcuno saresti stato più contento papà? Eeeh?! Le unghie che stringevano il cuscino erano diventate bianche. Gli occhi socchiusi come per prendere le distanze da questo mondo. Prese il telefono e dalla rabbia lo scagliò contro il muro mandandolo in mille pezzi. Un senso liberatorio lo pervase e non seppe dire il motivo ma, dopo quel gesto, si sentiva finalmente bene. Come se quel rumore di vetro e plastica che si disintegravano al contatto con il muro avessero fatto esplodere tutte le sue fobie e frustrazioni. Non sapeva quanto sarebbe durato quello stato d’animo ma finché ci stava dentro se lo godette fino in fondo. Quel giorno avrebbe mandato un’email da portatile che aveva sul tavolino per comunicare che non sarebbe andato in ufficio per motivi di salute. Ce l’aveva con il mondo. O perlomeno con gran parte di esso.
A settanta km di distanza Giorgio fissava il telefono tra le mani. Seduto sul ciglio del letto, con sua moglie dietro che gli posava le mani sulle spalle. Dopo un momento di indecisione (quasi un minuto) compose il numero di telefono di suo figlio e schiacciò il tasto verde. Chissà quante discussioni e litigi prima di quella decisione… Farò solo una chiamata, disse perentorio lui a sua moglie. Era già un inizio.
Rispose la segreteria telefonica. Giorgio riattaccò e si rimise a letto.
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